Studio di una estetica in movimento.
Laboratorio di fotografia esperienziale a cura di Yvonne De Rosa di Magazzini Fotografici per “Io sono felice ” Museo Madre.
Il rapporto che si crea tra l’oggetto artistico e la sensibilità individuale di chi lo percepisce va a scardinare il concetto di bellezza ideale.
La fotografa nella serie “Prelude” insiste sulla complessità di tale rapporto, amplificando la percezione sensibile dell’osservatore. Nell’assenza di precisi riferimenti interpretativi, i soggetti fotografati si caricano dei suoi desideri o delle sue paure.
Si oscilla in una dimensione immateriale, caduca, per cui l’unico modo in cui si può rappresentare la bellezza corporea è nella sua intangibilità.
La forma cede il passo ad un’idea lasciandocela immaginare in tutta la sua perfezione. L’assenza ne aumenta il desiderio.
Ogni immagine può diventare, nella penombra del velo che la avvolge, Paradiso e Inferno, Vita e Morte.
Il risultato della ricerca appare, nella sua forma finale, come una performance che traduce in immagini un’idea estetica di musica e di movimento.
Dentro stanze sconosciute, l’animale umano consuma la sua socialità attraverso azioni corporali. Un gioco di incontri fra coppie, in luoghi non-luoghi , in uno spazio senza tempo in cui fluiscono sensazioni. Corpi colti in un microcosmo che potrebbe essere un sogno che inquieta per la prima volta, che travolge e apre a nuove visioni. È morte e nascita nella stessa sfera, nella quale si finge qualcosa o si crea qualcosa che rimarrà impresso nella memoria dei loro corpi.
Non un corpo concepito come modello inerte ma partecipe, libero di rifiutare lo sguardo violento ed ossessivo del fotografo.
Non esiste carica erotica benché il corpo sia nudo, ma una richiesta di intimità, di autopreservazione.
L’uomo è scisso in corpo e spirito e se il corpo indietreggia di fronte alla possibilità di perdita di senso, l’assurdità della vita, il secondo brama un ordine delle cose, il controllo del corpo stesso.
anzi nutre una certa pornografia delle immagini. Siamo ormai assuefatti ad un consumo rapido e senza empatia delle immagini, abituati ad una sovrapproduzione di contenuti.
Siamo morbosi voyeur.
Un grido di disperazione emerge dal bianco delle foto, un ultimo appello del corpo prima d’essere divorato, consumato su carta fotografica.
Non un progetto di autoritratto ma la traccia di una relazione viva tra chi guarda e l’oggetto mostrato che ho voluto interpretare.